venerdì 11 marzo 2011

Accesso ai servizi di welfare: siamo cittadini o sudditi?

Comincia un novo anno ed è già il secondo del secondo decennio di questo nuovo secolo che di delusioni al nostro mondo, il mondo dell’assistenza anziani intendo, ne ha già portate un buon numero. Usando una citazione da cinefilo, ben nota agli appassionati di fantascienza, l’uomo nuovo tornando dalle stelle vede i mali che affliggono la Terra e, sentendosi dubbioso e quasi impotente, pensò che avrebbe fatto qualcosa..! Anche noi come l’interprete del celebre 2001 di Kubrik, di fronte ai mali che affliggono l’assistenza, dobbiamo scrollarci di dosso il senso di disagio e anche se ci sentiamo dubbiosi e quasi sempre impotenti dobbiamo comunque decidere di fare qualcosa!
Prima di fare, però, è bene analizzare la situazione di partenza, perché, è ovvio, non si va da nessuna parte se neanche si sa da dove si parte.
Si parte da un’analisi di mercato che vede un’estrema confusione tra domanda, offerta, controllo, prodotti e prezzi. In ogni mercato che si rispetti c’è una domanda potenziale o espressa da parte dei cittadini per un prodotto o servizio e c’è uno o, più opportunamente alcuni, fornitori che studiano e interpretano i bisogni offrendo i prodotti che meglio rispondono alle esigenze con un rapporto qualità prezzo ritenuto adeguato da un congruo numero di acquirenti. Quindi c’è una domanda e un’offerta, nonché un prodotto e un prezzo su cui avviene l’incontro da domanda e offerta in modo soddisfacente per le due parti le quali, inoltre, ognuna per i propri fini, esercitano il controllo di qualità. Naturalmente non tutto è così semplice; c’è, anche in questi casi, l’inserimento di qualche connotato etico e lo Stato stesso con apposite norme stabilisce a volte limiti insuperabili o magari obblighi sull’utilizzo di certe sostanze o certe tecniche industriali, sulle date di scadenza dei prodotti alimentari o sull’etichettatura. Ma anche altri attori introducono elementi etici: lo stesso produttore, a volte, sia pure semplicemente per conquistare i consumatori indecisi o perplessi, introduce forme di garanzia sui prodotti o, sempre più di frequente, sui processi ad esempio con le certificazioni ISO 9000.
Nel nostro caso invece? La situazione è sconfortante. La domanda è quasi sempre inespressa, infatti si rende esplicita nei momenti critici – e non sempre – ma è potenziale e latente anche prima di esplodere. Vista l’importanza della domanda inespressa si apre il problema di quale debba essere l’ente che la definisce. Da un lato ci sono i produttori (che in una situazione di prodotto o servizio non assistenziale sarebbero gli unici ad agire) e dall’altro c’è lo Stato, ovviamente anche e soprattutto nelle sue declinazioni territoriali. A rigore dovrebbe essere solo l’ente politico ad accollarsi l’onere dell’interpretazione per evidenti motivi di etica pubblica, ma non è così. Troppo spesso nelle attività di analisi dei bisogni viene fatta una pura e semplice fotografia dell’esistente ovvero si certifica come “domanda” ciò che è oggi ”l’offerta” contravvenendo in sostanza al proprio dovere di fare le scelte.
Come confusione d’inizio non c’è male! In questo modo si mantiene uno schema che privilegia i prodotti esistenti e le strutture di offerta che di fatto sono gli unici interpreti dei bisogni, certificati poi dall’ente pubblico che chiuderà così un processo negativo e autoreferenziale. Nel sistema domanda/offerta, in generale, può essere che sia il produttore ad interpretare la domanda, anzi, è quasi sempre così, ma c’è un contro-bilanciamento nel potere di scelta da parte dei consumatori. Potere di scelta che nel nostro caso non c’è, sia perché quasi sempre gli enti erogatori lavorano in regime di oligopolio sia perché il sistema dei controlli stabilito dallo Stato e dalle Regioni non favorisce la concorrenza con conseguente assenza di stimoli a fare ricerca nei campi strategici della qualità e dell’economicità di gestione.
Il secondo punto negativo quindi è il sistema dei controlli. Autorizzazione al funzionamento e accreditamento non sono due facce della stessa medaglia sono proprio la stessa cosa con due diversi gradi di rilevanza giuridica e di conseguenza commerciale. Con l’autorizzazione al funzionamento si certifica la possibilità tecnica degli enti a produrre ed erogare un determinato servizio socio-assistenziale e con l’accreditamento si stabilisce quali possono ricevere l’incarico pubblico di produrre, ovvero quali produrranno accedendo ai benefici economici pubblici. Gli accreditati saranno privilegiati potendo offrire il prodotto ad un prezzo contenuto in quanto abbattuto dal contributo pubblico. Andrebbe bene se non fosse che i fornitori , vengono accreditati per un numero di posti pari a quelli necessari o meglio semplicemente pari a quanti le risorse consentono di pagare. Ognuno difenderà il proprio accreditamento con i denti, con buona pace del diritto di scelta dei cittadini e dei benefici sulla qualità portati dai sistemi produttivi che prevedono la concorrenza. È vero, non tutte le regioni hanno legiferato in modo così rigido, qualcuna non lo ha fatto e almeno in parte qualche elemento di favore alla concorrenza c’è, ma almeno per ora questa sembra la linea più seguita dalle regioni.
Per gli altri prodotto o servizi i prezzi son un elemento importante, che discrimina, che evidenzia la qualità, che scopre ed evidenzia segmenti di mercato. Nel mercato dei servizi sociali la segmentazione è praticamente vietata per legge perché siccome siamo tutti uguali dobbiamo tutti ricevere un uguale servizio. Ma chi garantisce questa uguaglianza? E poi, che senso ha? Siamo tutti così diversi! Siamo gratificati ognuno da motivi diversi, ci emozioniamo per sfumature.. ma come si fa a prevedere le sfumature? Perché non lasciamo che sia la scelta individuale a decidere dove andare a spendere i soldi propri e dell’ente accreditante? Questa è una prima conclusione che sorge proprio dal cuore. Perché temiamo che gli utenti o i decisori non possiedano le capacità necessarie per valutare la qualità di un servizio socio-assistenziale? Pensiamo che sia più facile, o indifferente sotto il profilo etico, compiere valutazioni sulla validità di un’offerta commerciale complessa come quella di un superstore o di un autlet o di un gestore televisivo? Eppure li nessuno si scandalizza: il cliente è il re, si dice, ma in realtà è un suddito! Nel nostro caso invece, siccome il prodotto è intangibile e frutto di una lavorazione tecnica delicata (e quello televisivo?) il cliente deve essere protetto dalla sua ignoranza, così è di nuovo suddito!!
Si tratta di scelte politiche, quindi non possiamo fare molto se non denunciare le incongruenze che vediamo e proporre delle linee alternative.
Prima di tutto bisogna chiedere che le responsabilità siano precisamente individuate e distinte. Gli organismi politici hanno due precise responsabilità: quella di accertare la dimensione e la tipologia della domanda e quella di certificare la qualità dei servizi. Le leggi attuali questo dicono, il problema è che gli enti non lo fanno o non fanno solo questo o se si, spesso lo fanno male.
I componenti della tecnostruttura dei comuni devono andare a scuola di marketing e letteralmente “buttare nel cestino” i manuali amministrativo-burocratici coi quali si sono riempiti la testa per oltre un secolo e coi quali, al massimo, hanno imparato a salvarsi da errori amministrativi sempre possibili o, qualche volta, dalle accuse penali. Certo buttare questi manuali è difficile in un contesto dove sembrano l’unica verità e dove i vertici politici e i superiori per grado mostrano di crederci ancora. Come faccio ad evolvermi e diventare “l’uomo nuovo” post-moderno se i miei capi ragionano con la mentalità che si è affermata e ha sostenuto il pubblico e la nazione intera per tutto il secolo scorso? Eppure bisogna farlo. Bisogna che i sindaci comincino a far delle cose nuove sennò anche l’introduzione del federalismo, che sembra l’unica riforma possibile di questa epoca storica, non servirà a niente. Non servirà a cambiare l’Italia ma solo, se mi passate la battuta, a trasformarla, con un regionalismo a “Macchia di Gattopardo”.
Perché non ci prova il sindaco di Firenze? È il sindaco più popolare d’Italia, è uno che, da sinistra, ha avuto il coraggio di dichiararsi d’accordo con Marchionne, quindi ha capito dove sta andando il mondo, ed è capo di un comune importante in una regione di grande tradizione sui servizi. Dunque è l’uomo giusto, anche perché, non essendo schierato nell’area dei conservatori, non verrebbe pregiudizialmente accusato dall’area politica progressista, molto attenta, almeno nelle oded
Accept: application/xml,apdei servizi sociosanitari.
A parte questo, ma l’invito a Matteo Renzi ha comunque un senso, ciò che si deve fare è semplice (a dirsi): si deve formare un nuovo staff dei servizi sociali del comune. Nuovo per cultura e giovane per esperienza. Le vecchie esperienze non servono a niente, quindi il nuovo staff deve essere davvero nuovo per l’ambiente sociale. Per garantire le conoscenze tecniche si dovrà fare un’opportuna e mirata formazione ai nuovi, ma bisogna togliere il potere a quanti lo hanno rimescolato fin’ora. Questa è l’unica strada per vedere dei Piani di Zona che, dimenticando lo storico, formulino delle previsioni di volta in volta adeguate alla realtà sulla base dell’evoluzione demografica e delle previsioni epidemiologiche. Piani di Zona che tengano davvero conto, senza disperdersi in parole, dei dati numerici che consentono di leggere i bisogni. Non parole, numeri! Nei Piani di Zona deve essere chiara la eventuale discrasia tra domanda e offerta quindi, sempre per numeri, deve essere evidenziato cosa manca cosicché gli imprenditori del settore capiscano quali prodotti mettere in campo.
E poi la qualità! La garanzia deve essere data dal comune che è responsabile di autorizzazione al funzionamento e accreditamento. Per queste attività deve utilizzare funzionari propri scelti con modalità nuove ai quali deve essere fatta formazione perché diventino dei certificatori di qualità. In alternativa deve affidarsi ad agenzie esterne dotate del necessario know how in materia di qualità e di servizi. Indispensabile in ogni caso però è la conoscenza degli strumenti della certificazione di qualità (tipo ISO 9000) perché è un modo di trattare i problemi che copre universalmente le esigenze di qualità di qualsiasi fornitura. Naturalmente tali caratteri devono essere declinati in modo corretto rispetto all’ambiente socio-sanitario, ma ciò sarà reso possibile dai funzionari comunali che, anche con l’attuale formazione, offrono le necessarie garanzie.
Si è detto più volte che il pubblico deve mantenere una parte, anche piccola, di produzione per sapere in proprio quali sono i problemi, per capire e per conoscere direttamente le tecniche di produzione. Non sono mai stato completamente d’accordo con questa tesi e ora sono del tutto contrario, visti i disastri economici di molti enti. Non è rilevante che il pubblico sappia produrre, mentre è indispensabile che sappia controllare. Per questo in ogni caso i comuni devono avviare alcuni dipendenti di buon livello ad una formazione sull’auditing[1] e far acquisire loro la qualifica di certificatori di qualità. Tale nuova competenza sarà utile per scegliere i gestori di servizio e per controllarne la qualità attraverso l’esame dei loro processi produttivi.
Le modalità di controllo non devono esser burocratiche, quindi i funzionari comunali addetti, laddove è possibile, devono esser riqualificati come certificatori. La cultura è un passo importante, che si accompagna, però, al grande problema dell’indipendenza del certificatore. A tale proposito, quindi, altro passo determinante è la rottura del vecchio schema ancor oggi evidentemente imperante (troppo spesso i fatti di cronaca ce lo dimostrano impietosamente) per il quale le assunzioni e le carriere negli enti pubblici si fanno per interessi di partito o addirittura di famiglia. La crisi spazzerà via il nepotismo e le corruttele? Forse, ma non sembra ancora maturo il momento, per cui pur con tutti i limiti è preferibile un certificatore esterno.
I controlli di qualità che spettano ai comuni devono essere svolti secondo le norme dell’audit di qualità, ma queste si aggiungono e non sostituiscono le norme giuridiche. È chiaro che non possono, ovviamente, essere disattese le leggi e i regolamenti dello Stato e delle Regioni, quindi è su queste norme che dobbiamo porre l’attenzione. A parte lo Stato che regolamenta la materia in termini molto generali e quindi non determina difficoltà, occorre una nuova linea culturale nella produzione legislativa e regolamentare delle regioni.
La regione deve dire solo quali sono le caratteristiche e i requisiti che ogni fornitore deve possedere per essere accreditato, ma non deve porre altri limiti. Se l’autorizzazione al funzionamento è il riconoscimento del possesso del minimo, i requisiti per l’accreditamento devono essere definiti e studiati soprattutto in modo diverso. I requisiti minimi possono essere accertati anche con un metodi di controllo burocratico. Una chek list che verifichi la presenza degli stessi e niente più; mentre l’accreditamento riguarderà non lo stato di fatto ma la condizione operativa e culturale dell’organizzazione. Se il primo è un controllo burocratico il secondo è un audit. Un controllo che deve essere uno strumento, non ispettivo punitivo, ma finalizzato al miglioramento. Se per qualità di un servizio si intende la sua capacità di soddisfare i bisogni dagli utenti secondo le tecniche migliori del momento e in rapporto alle risorse, l’audit avrà un esito positivo e l’ente erogatore potrà essere accreditato o mantenere l’accreditamento se potrà garantire tre livelli di capacità. In primis l’uso efficiente delle risorse poi la crescita e l’aggiornamento professionale per un miglioramento continuo della performance e infine la soddisfazione dell’utente.
Tra autorizzazione e accreditamento non ci deve essere un rapporto simile a un gradino. Se hai 100 sei autorizzato, se hai 120 sei accreditato. Per essere accreditato devi avere 100 di partenza e devi avere una struttura interna di controllo e sviluppo che garantisca l’autocontrollo di qualità e la filosofia del miglioramento continuo che non si verifica con accertamenti semplici sul possesso o meno di elementi materiali, bensì sulla verifica costante della capacità di effettuare audit interni col fine di migliorarsi sotto tutti gli aspetti della qualità compresa l’efficienza e l’efficacia della gestione.
L’auspicio è avere verificatori indipendenti dotati di quella cultura nuova del controllo che a tutt’oggi sembra del tutto assente nell’apparato pubblico italiano.



[1] Auditing: controllo di un sistema, effettuato in modo tale da permettere di confrontare le attività svolte sul sistema analizzato con le politiche e le procedure stabilite al fine di determinare la loro conformità, suggerendo eventualmente l'opportunità di introdurre delle migliorie.

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