mercoledì 2 novembre 2011

La CRISI e i suoi effetti sul welfare

Gli effetti della crisi sul welfare rischiano di far arretrare e di molto il bene-essere degli anziani e disabili di tutta Italia.
I tagli alle Regioni e agli enti locali saranno fatali se a questo si uniscono provvedimenti sulle pensioni e incentivi alla crescita che si incentrano sui licenziamenti facili. Si andrà sempre più verso un impoverimento della base a cui, forse, non corrisponderà neanche un miglioramento  per i pochi ricchi e ricchissimi rimasti.
Non è una prospettiva facile da affrontare per diverse ragioni. Gli enti locali si troveranno nel dilemma se tagliare i servizi o aumentare le quote a carico dell’utenza. L’orientamento dipenderà dal contesto e dalla politica locale, ma presumibilmente ci saranno molte difficoltà ad ipotizzare un aumento di quota a carico dell’utenza considerato che le famiglie sono già sufficientemente tartassate.
Allora è giocoforza che ci sia un taglio sull’offerta e a tale scopo si potrà aprire un ventaglio di possibilità. Già perché questo taglio sull’offerta può essere fatto in modi diversi e con effetti disuguali, così vale la pena di rifletterci perché il modo in cui si taglierà può fare la differenza.
In primo luogo si può tagliare sul numero. Premesso che la domanda è crescente per numero e per intensità di problemi assistenziali, se l’Amministrazione pubblica mette a disposizione le stesse risorse di prima di fronte all’aumento della domanda primo di tutto si riduce il numero dei cittadini soddisfatti in rapporto al numero dei richiedenti. Offro le stesse soluzioni di prima allo stesso numero di richiedenti escludendone un certo numero. Anche qui si aprono alcune ipotesi circa i criteri di esclusione. Per età del soggetto richiedente, per priorità di domanda, per censo, per gravità della disabilità? Tutte possibili, tutte legittimabili, tutte eque, o no?
Ma l’assunto iniziale è già di per sé sbagliato probabilmente, perché siamo di fronte a una contrazione delle risorse, quindi non sarà possibile servire lo stesso numero di prima e di conseguenza la percentuale di cittadini insoddisfatti aumenterà. Non solo perché i richiedenti sono più di prima, ma perché l’importo di risorsa messo a disposizione è minore, quindi a parità di prestazioni dovrà non salire, ma discendere il numero dei cittadini soddisfatti.
È chiaro che c’è un’altra possibilità: ridurre il livello di qualità e mantenere il servizio allo stesso numero di soggetti richiedenti o addirittura aumentarli. Tanti più saranno utenti serviti tanto meno la qualità potrà essere garantita. Quella che possiamo definire la “curva isorisorsa” non ha un andamento univoco rispetto al numero e la qualità, ma è funzione di entrambe le variabili che hanno tra loro un rapporto inversamente proporzionale; così più sale il numero più diminuisce la qualità, mentre più sale la qualità più bisogna necessariamente diminuire il numero. È un bel dilemma.
Così è evidente che se lo Stato decide di continuare a servire e soddisfare lo stesso numero di utenti dovrà assestare la qualità su un determinato livello, più basso di prima perché le risorse sono minori.
Faccio un discorso solo in termini qualitativi e non offro valutazioni sulle concrete entità, ma non posso far di meglio senza analisi più approfondite che per ora non possiamo fare. In sostanza dunque non sappiamo il quanto ma siamo certi che le risorse disponibili sono meno e quindi lasciando invariati gli altri parametri la qualità deve necessariamente diminuire.
Ovviamente lasciando invariati gli altri parametri che sono diversi. Non c’è solo il numero, ma a nessuno sfugge che c’è anche la condizione fisica e la condizione sociale da considerare.
Entrambi questo elementi sono destinati a cambiare e  tali cambiamenti non portano nulla di buono. Infatti gli anziani accederanno ai servizi sempre più tardi con un complesso quadro pluripatologico e quindi costi assistenziali crescenti. Inoltre le condizioni di impoverimento della società nel suo complesso determinerà una situazione media di ulteriore difficoltà che non potrà che riflettersi sulla domanda di servizi.
Questo a ben guardare, paradossalmente torna utile allo Stato: la peggior condizione sociale in termini di occupazione e in generale di ricchezza disponibile farà diminuire la domanda. Non perché il bisogno non ci sia ma perché non ci sono risorse per soddisfarlo non solo da parte dello Stato ma anche dei cittadini, va da sé che ciò significa arretramento della qualità di vita della nostra società.
Che fare?
Le ricette sono poche e poco facili da realizzare. Richiedono nuova competenza, coraggio, fantasia, costanza, fiducia in sé stessi e nel contesto socio-economico e politico in cui si vive.
1 – combattere inefficienza e sprechi
2 – creare sana competitività tra i gestori
3 – eliminare le rendite di posizione dei gestori e dei fornitori di prodotti e servizi
4 – non inquadrare in modo improprio i bisogni e i servizi
5 – coprire la diminuzione di quantità del lavoro con la qualità dello stesso.
Queste cinque domande sostanzialmente sono riconducibili ad una sola risposta: il meglio che si può offrire dipende dall’ottimizzazione del sistema di programmazione e produzione cioè da un aumento di efficienza e di efficacia del sistema stesso.
Per aumentare questi parametri bisogna incidere sulle strutture attuali che richiedono da un lato una sostanziale deregolamentazione e dall’altro precise regole di accreditamento tali da rendere visibili le responsabilità.
Una deregolamentazione si potrebbe riferire ai piani di zona: non viene a nessuno il dubbio che così come sono stati fatti fin’ora servono a poco? Sulla loro base si finisce per contingentare un ventaglio di offerta precostituito che non è detto sia adatto ai bisogni reali esistenti nel territori. Un’ipotesi coraggiosa è cancellarli e utilizzare il risparmio di risorsa-lavoro per incrementare il fondo per la non autosufficienza. Pensiamoci e discutiamone.
Una deregolamentazione potrebbe essere fatta sugli standard abitativi che potrebbero essere considerati soddisfatti una volta che siano rispettati gli oneri per la sicurezza e sia garantita la privacy nei servizi igienici. Tradotto: non necessariamente un bagno per ogni stanza al massimo da due posti, ma anche un bagno per due stanze per tanti ospiti quanti quelle due stanze contengono. Certo che la qualità dell’abitazione cala, ma è meglio avere una stanza da tre col bagno in comune con un’altra piuttosto che essere esclusi dal servizio. Con queste premesse si può arrivare ad una segmentazione verticale del mercato? Può essere, ma ci deve scandalizzare? Ci scandalizza che una famiglia di 4 persone abbia una villa di 200 mq. e un’altra un appartamentino con due camere da letto e un solo bagno? Una sta meglio, vero, ma non è garantita la dignità umana dell’altra?
Ho aggiunto due provocazioni ad altri elementi che ho già evidenziato in un precedente articolo quali la necessità di riforma e la disattenzione della politica, l’eterogeneità dei fornitori di servizi che non appare come fatto positivo ma un elemento di disparità, l’accreditamento che ha portato non solo fatti positivi ma anche un po’ di confusione. E poi, il personale è pronto al cambiamento? E infine l’industria di supporto è pronta o preferisce crogiolarsi nelle sue rendite di posizione? Fino a quando si potrà ignorare il nuovo che avanza?

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