domenica 14 marzo 2010

Il personale è l'unico capitale su cui costruire il futuro dei servizi sociosanitari

Questo è un elemento di crisi: lo Stato farà sempre più fatica, nell’ambito di una onesta ripartizione delle risorse tra i diversi bisogni, a soddisfare per intero la domanda dei servizi assistenziali.
Va da sé che a fronte di una probabile diminuzione della produzione pubblica si assisterà a un progressivo ampliamento, in termini percentuali, della presenza di servizi privati privi di qualsiasi legame economico col pubblico, ma ciò ha due possibili conseguenze entrambe poco gradite: si dovrà sostenere un maggior costo a carico delle famiglie oppure si dovrà riconoscere l’inevitabile e accettare una diminuzione di qualità.
Si l’inevitabile, perché, per un principio scientifico universalmente accettato nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma; così, non è possibile creare servizi dal nulla, ma essi saranno frutto della trasformazione di risorse e se né lo Stato né i cittadini potranno aumentarle oltre un certo limite, allora, inevitabilmente, la qualità dovrà attestarsi su livelli più bassi.

Bel futuro si stanno preparando, tutti quanti quelli che come me sono relativamente vecchi (o relativamente giovani se preferite)!!

Così, voluto da una legge (la 328 del 2000) non sempre osservata e quasi mai capita nel suo spirito più intimo, arriva l’accreditamento che, forse, nelle intenzioni più pure doveva assumere il ruolo di baluardo a difesa della qualità soprattutto promuovendo una sorta di concorrenza, magari un po’ virtuale, ma comunque portatrice degli effetti positivi per l’introduzione di un minimo di competitività.
In realtà a poco a poco arrivano le norma sull’accreditamento che le Regioni, ultima in ordine di tempo la Regione Emilia Romagna, modellano sull’impianto di un welfare non più nazionale, ma via via sempre più rapportato alla realtà locale più piccola: la Regione, la Provincia, il Distretto o il singolo Comune.
Certo nelle varie legislazioni regionali le dichiarazioni di intenti rispetto, non solo al mantenimento ma anche alla crescita della qualità, sono presenti, ma nel contenuto legislativo mancano, nella sostanza, due garanzie fondamentali.
La prima è relativa agli standard previsti per le strutture che, ancorché probabilmente appropriati in prospettiva, sono spesso da considerarsi, oggi, un sogno e con la scarsezza di risorse di cui s’è detto, non si vede come possano essere raggiunti in tempi brevi.
La seconda considerazione riguarda a sua volta il capitale aziendale, ma in un’accezione nuova e ancora un po’ inusuale nell’ambito pubblico. Il riferimento è al patrimonio intangibile delle aziende che un eccesso di burocrazia o di schematismo organizzativo potrebbe mettere in crisi seriamente.

Da un lato quindi i requisiti richiesti che spingono verso livelli elevati di qualità e specie quelli strutturali potranno essere raggiunti soltanto in tempi lunghi e con investimenti notevoli che non si vede come possano essere garantiti subito, nel giro di due o tre anni, considerato oltretutto lo schema tariffario rigido.
Dall’altro l’introduzione di politiche che tendono a determinare una situazione di responsabilità gestionale unitaria che esclude che un’Azienda Pubblica possa mantenere la gestione di un nucleo in cui operano maestranze di una cooperativa che ha appaltato il servizio o parte di esso.
Questa posizione, formalizzata ed evidente nella normativa dell’Emilia Romagna, non solo contraddice, sia pur in modo indiretto, ma pesantemente, il proposito di dare una garanzia di sviluppo alle ASP, ma crea le basi per desertificare la ex IPAB da un punto di vista della cultura del servizio.
Non potendo utilizzare l’appalto di servizi alcuni (tutti??) enti gestori pubblici dovranno cedere parti di attività “sotto lo stesso tetto” ad altre imprese che gestiranno in proprio con accreditamento in proprio.

Ma avrà pensato qualcuno al pericolo indotto nell’organizzazione da questa scelta?
Si sarà posto, qualcuno, lo scrupolo .... (Continua)

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