sabato 7 gennaio 2012

Intervento al convegno di Campobasso


Campobasso - Centro storico
ANOSS prosegue nell'impegno di diffondere in ogni regione il programma lanciato per il 2011 e intitolato il welfare che verrà. Lo scopo è quello di costruire le possibili strategie di miglioramento nei vari territori italiani, in realtà tutti diversi tra loro, con la collaborazione, indispensabile, degli operatori del posto.
Offriamo semplicemente un po’ di esperienza e gli strumenti necessari per dare coerenti risposte ai bisogni crescenti della popolazione anziana in un momento particolarmente difficile per la crisi che inevitabilmente viene a pesare sulla condizione di vita di coloro che hanno un minor grado di autonomia.
Per questo abbiamo una ragione in più per impegnarci nello sviluppo di nuova cultura che deve coinvolgere tutti avendo un particolare riguardo al personale operativo sulle cui braccia si trasferisce concretamente ogni difficoltà. L’operatore rappresenta anche il punto di contatto ineliminabile con l’utente del servizio ed è per questo che lo consideriamo il primo vero destinatario di ogni nostro studio e pensiero.


La motivazione del personale è il più significativo fattore di qualità, quindi prima di ogni altra cosa di questo ci vogliamo occupare senza scordarci di sollecitare le Istituzioni affinché comprendano e diano coerente sviluppo al loro ruolo prevalente che è quello di svolgere una corretta attività di programmazione e controllo per assicurare ai nostri servizi un orientamento sicuro verso un futuro non facile e che potrebbe spingere a derive non auspicabili sul tema della qualità o dei costi che si trasferiscono sui cittadini.



MOTIVAZIONE AL LAVORO
di Renato Dapero
Dunque, iniziando l’intervento è necessario fare le presentazioni: sono Renato Dapero e, quand’ero un giovane di belle speranze studiavo “legge” col dichiarato intento di fare l’avvocato. Davvero non avevo trascurato niente, gli esami complementari coerenti per chi voleva una carriera da penalista, la tesi di laurea in procedura penale: tutto per uno scopo evidente. Tutto faceva pensare che ero davvero convinto di fare l’avvocato, ma alla fine mi dedicai a tutt'altro. Probabilmente negli anni precedenti mi ero innamorato del personaggio di una popolare serie televisiva, quel Perry Mason che risolveva brillantemente i casi più incredibili.. chissà? Di fatto quando presi concretamente contatto con quel mondo mi accorsi entro pochi mesi che non faceva per me. Così mi sono lanciato in una rapida riconversione degli obiettivi e dopo un periodo di esperienza in aziende private finalmente l’approdo nei servizi sociali comunali e, per concludere, una lunga esperienza di direzione di una struttura protetta per anziani non autosufficienti. Le domande da porsi sono due: come mai non ho voluto fare l’avvocato dopo tutto l’impegno precedente? Cosa ha significato e come è stata la riconversione della mia attività e della mia cultura?
Non ho fatto l’avvocato perché dopo aver visto com’era concretamente il lavoro non mi sono sentito motivato a farlo. La motivazione dunque è stato l’elemento determinante. La motivazione, ovvero quella spinta interiore che porta ciascuno di noi ad impegnarsi per soddisfare un’esigenza. È una forza interna che stimola e sostiene e offre una regolazione alle nostre azioni. Esistono varie teorie e studi approfonditi sulla motivazione e tutti partono dalla considerazione che per agire ci debba essere un bisogno da soddisfare, dopo di che, avvenuto il primo passo, il fenomeno si riproduce in modo ciclico: dopo aver trovato i mezzi per soddisfare il bisogno ciascuno di noi fa una nuova valutazione riscoprendo inesorabilmente nuovi bisogni che ci impegniamo a soddisfare e così via. Ci fermiamo non quando abbiamo esaurito i bisogni ma quando gli strumenti offerti dal nostro lavoro, dalla nostra esperienza e, in una parola, dalla nostra vita non sono idonei a risolvere i bisogni che quel lavoro ci propone cioè quando tra noi e il lavoro sorge una sorta di non comunicabilità. Noi abbiamo dei bisogni, ma il lavoro che svolgiamo a sua volta ha dei bisogni. Tra questi due gruppi ci vuole affinità,  non devono essere sovrapponibili, ma devono mostrare una certa coerenza. La motivazione al lavoro si ha quindi quando è il lavoro stesso ad offrire a noi una motivazione per la nostra esistenza; se non è così l’interesse per il nostro lavoro cala e può anche scomparire del tutto. Ecco perché secondo me la motivazione al lavoro si trova dentro di noi e non può essere indotta dall’esterno. Dall’esterno si può dare qualche sollecitazione, qualche alimento, ma se il terreno interiore non è fertile nessuno potrà mai farci amare un lavoro.
Dunque decidere di fare o non fare un certo lavoro dipende esclusivamente dal grado di consapevolezza che uno riesce ad avere relativamente ai suoi principi, ai suoi gusti e ai suoi bisogni /desideri. Consapevolezza e fiducia in sé stessi, ma anche aver chiari i propri limiti soprattutto per ciò che riguarda le nostre emozioni e relativi effetti. Non si può sapere prima, almeno non si può saperlo con certezza. Bisogna sperimentare ma se un lavoro non presente caratteristiche consone ai nostri bisogni quel lavoro non fa per noi.
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Ho letto recentemente un testo di Daniel Goleman[1] il quale sostiene che per svolgere bene un lavoro sono necessarie alcune competenze che appartengono a quella che lui definisce l’intelligenza emotiva e che si dimostrano più importanti del quoziente intellettivo e dell’esperienza. Per Goleman la “Competenza Emotiva” è formata da due gruppi che definisce  “Competenza personale” e “Competenza sociale” il tutto come meglio evidenziato nella tabella riportata a fianco. Facendo questa lettura mi sono reso conto di quanto è stata determinante nelle mie scelte la competenza emotiva e lo si riconosce bene nel racconto che ho appena fatto. Nel rifiutare di fatto il lavoro di avvocato ho applicato di sicuro i tre elementi che Goleman definisce della competenza personale. La consapevolezza e il riconoscimento dei limiti personali mi ha fatto cogliere la mia inadeguatezza verso il lavoro di avvocato e la fiducia in me stesso mi ha detto che potevo liberamente cercare altre strade. Atteggiamento aperto al nuovo e flessibilità mi hanno consentito di sperimentare, di iniziare un nuovo percorso, con flessibilità, ma senza buttare niente. Senza rimpianti e con ottimismo, vuol dire con la consapevolezza della possibilità di utilizzare in modo flessibile la cultura acquisita con le scuole e l’università declinandola a favore di attività professionali diverse da quella standard, appoggiandosi alla fiducia in sé stessi e all’ottimismo componente indispensabile per riuscire a continuare nel proprio percorso anche a fronte di momenti controversi o di vero e proprio insuccesso.
Così viene messa in luce la motivazione cioè quell’insieme di tendenze emotive che guidano e sostengono le scelte e facilitano il raggiungimento degli obiettivi. Goleman sostiene che l’aspetto economico non è sufficiente per sentirsi appagati e questo in sostanza ho risposto ai miei amici che mi criticavano per aver abbandonato la carriera di avvocato. Ho risposto loro che le sfide che mi poneva l’avvocatura non mi piacevano; mi interessava una vita con aspetti più creativi. Questo, più o meno consapevolmente, rispondevo ai miei amici e ciò molti anni prima che Goleman scrivesse i suoi testi che oggi mi consentono di capire meglio. 
La motivazione è determinata da tre abilità. La spinta alla realizzazione personale, l’impegno di condivisione degli obiettivi all’interno della missione di un’organizzazione e infine l’ottimismo che potremmo definire come la speranza di successo nonostante gli ostacoli. In sostanza il processo logico è questo: “mi voglio realizzare – all’interno di un’organizzazione – e credo che ce la farò!” il percorso sarà pieno di ostacoli, lo sappiamo, ma importante al fine di non cedere è attribuire gli insuccessi a circostanze controllabili e guardarsi bene dal viverli come personali fallimenti. In pratica si tratta di cercare rimedi, non di piangersi addosso.
Fin qui le competenze personali di cui tutti disponiamo in modo più o meno forte e che dobbiamo implementare con le nostre esperienze di vita professionale e non solo. Queste competenze, in modo inconsapevole mi hanno aiutato a scegliere e ad arrivare nel modo dell’assistenza.


Ora, senza riferimenti alle mie esperienze, parleremo sinteticamente di quelle che Goleman chiama “competenze sociali” e sono l’Empatia e le Abilità Sociali.
Empatia è uguale a capacità di mettersi nei panni degli altri cioè di comprenderne bisogni e desideri e, senza dimenticare i propri, aiutarli a risolvere i loro problemi. Essere attenti ai sentimenti degli altri e essere disposti all'aiuto, saper valorizzare e fare serena attività di critica quando necessaria. Saper valorizzare le diversità che non devono spaventare ma devono essere viste come opportunità di confronto e crescita.[2]
Le Abilità Sociali consistono nella capacità di trarre vantaggio dagli stati d’animo di diverse persone che si influenzano reciprocamente sapendo che i sentimenti positivi influenzano la lealtà e la cooperazione cioè le prestazioni di gruppo. Capacità di persuadere e di adeguare il proprio comportamento agli stati d’animo dell’altro sono i fattori portanti delle abilità sociali. Queste abilità creano consenso sulla base di una corretta comunicazione votata all’ascolto e all’invio di messaggi convincenti. Il risultato è che si crea una situazione di reciproca comprensione e un’atmosfera che permette di esprimere i problemi e così promuoverne la soluzione con conseguente sviluppo del gruppo.
Chi possiede queste caratteristiche è un leader naturale nel senso che riesce a dare ispirazione al gruppo e a suscitare entusiasmo verso ideali comuni. A questo leader non mancano capacità nella gestione dei conflitti e di negoziazione per risolvere momenti di crisi interpersonali.


Mi viene in mente un film tra i classici della Walt Disney: Alice nel paese delle meraviglie. In particolare la scena memorabile del momento in cui, persa la strada, compare lo Stregatto che con aria maliziosa dice “Perso qualcosa?” Alice risponde che si domanda quale sia la strada giusta e lo Stregatto : “dipende da dove vuoi andare..” e la risposta: “oh, non importa..” “Allora poco importa quale strada prendere..!!”[3]
In queste poche battute e in quelle successive in cui lo Stregatto indica in modo ambiguo la strada per ritrovare il Bianconiglio, si nasconde un grande insegnamento che non si allontana molto dall’insegnamento di Goleman. Dobbiamo avere consapevolezza di noi stessi, dei nostri limiti e dei nostri obiettivi e dobbiamo avere padronanza con un atteggiamento aperto verso le nuove idee con una buona capacità di tener sotto controllo le nostre emozioni e una certa dose di flessibilità nel comprendere la situazione e gestire l’evoluzione delle cose intorno a noi. Alice dice che non vuole andare in mezzo ai matti ma lo Stregatto l’avverte: “oh.. sono tutti matti qui e poi, a ben guardare, sono un po’ svanito anch’io”.
Il mondo che ci circonda non è sempre chiaramente comprensibile e le persone con cui abbiamo rapporti non sempre le comprendiamo perfettamente. Ed proprio in questi casi che la nostra motivazione fa la differenza. Se abbiamo una forte spinta a realizzarci all’interno di quello che facciamo avremo iniziativa e flessibilità e metteremo impegno nella misura necessaria senza mai perderci d’animo. Questo è un invito all’ottimismo: dobbiamo sempre cercare di perseguire gli obiettivi anche a fronte di ostacolo e insuccessi.
 “Sono tutti matti qui..!” Chissà quante volte l’avete detto anche voi. Quante volte avete pensato: “questo lavoro è un inferno..!” e forse qualche volta non siete riusciti a tener sotto controllo le vostre emozioni. In realtà bisogna  saper dominare sentimenti e impulsi e superare le sensazioni angosciose mantenendo lucidità  e concentrazione anche nei momenti in cui, giustamente o ingiustamente, ci si sente sotto pressione. 
Vi voglio ricordare un esempio, tra mille, tolto dalle mie precedenti esperienze. Una collaboratrice a un certo punto cominciò ad avere una sensazione di disagio verso la sua responsabile pensando più o meno così: “per ragioni che non conosco la mia responsabile ha attenzioni particolari verso le nuove assunte e in particolare.. verso.. quella… io, come le altre del resto, mi sento trascurata e il disagio aumenta… poi mi hanno assegnato a un reparto più difficile, più impegnativo (Forse non era vero, forse il lavoro in quel reparto richiedeva più esperienza e per quello lo hanno affidato a lei. Ma questo pensiero positivo, più semplice e risolutivo, non viene fuori dalla mente di quella collaboratrice e così dentro di lei trionfa l’emozione negativa). Ogni giorno di lavoro per lei cresce lo stress, forse anche la responsabile è sotto stress, ma non se ne rende conto e in fondo non gliene importa niente. Non sa e non vuole mettersi nei panni degli altri. Così agli stress normali del lavoro si sommano i problemi derivanti dai suoi pregiudizi sulla sua relazione personale con la responsabile. Di giorno in giorno la tensione sale finché la collaboratrice un bel giorno sbotta e risponde male. Così la spirale negativa che prima era tutta dentro di lei si manifesta all’esterno, si amplifica, coinvolge gli altri e porta i rapporti sempre più in giù. Nulla di inventato, è un passo preso dall’esperienza. Allora quando tutto  sembra perduto viene voglia di andarsene  e di cercare un’altra soluzione per la propria vita e per il lavoro… ma non è così facile. Subito la collaboratrice ha capito di essere tremendamente legata a questo lavoro. Aveva un mutuo, i figli che costano, che devono studiare e andare all’università, aveva anche qualche problemino col marito.. così così,  roba da poco, come tanti altri, sia chiaro, ma intanto voleva mantenere la sua indipendenza per avere libertà di giudizio e parità sostanziale. 
Dunque una piccola osservazione: vedete in quanti modi il lavoro permea la vita sia dentro che fuori le mura della sede del lavoro stesso. Alla fine il ragionamento giusto: “devo stare dove sono almeno per un certo tempo”
E ora una piccola analisi.
Perché non bisogna andarsene?: 
1° perché non bisogna “fuggire” da un posto, è la premessa per sbagliare, si finisce per accettare di tutto pur di andarsene e con ciò si retrocede o si butta tutto anche ciò che di buono si era fatto.. 
2° quando si è così stressati i colloqui si fanno male e si vende male la propria immagine con conseguente insuccesso per i posti migliori. 
Se non bisogna andarsene non bisogna neanche continuare a soffrire e quindi è necessario trovare il modo di interrompere la spirale negativa. Il lavoro in genere e ancor più il lavoro di cura richiedono uno stato mentale riposato e buoni rapporti con tutti, con gli utenti, i colleghi e capi. Se il mio stato psicologico è negativo non posso lavorare bene e creerò disagio all’utenza e reazioni negative da parte di tutti coloro che mi circondano compresi colleghi e capi. La morale da ricavare dal racconto è che dobbiamo privilegiare manifestazioni empatiche. Dobbiamo metterci nei panni di chi ci circonda anche quando ciò è difficile o ci sembra che i loro comportamenti siano incomprensibili. 
Sono tutti un po’ matti qui. 
Diciamolo pure, ma teniamo duro ricordando che… “forse… sono un po’ svanito anch’io!”







[1] Daniel Goleman – Stockton 1946 è uno psicologo statunitense. Laureato ad Harvard e specializzato in "psicologia clinica e sviluppo della personalità". L'opera più conosciuta di Goleman è Emotional Intelligence (Intelligenza emotiva) del 1995. In questo libro l'autore afferma, tra l'altro, che la conoscenza di se stessi, la persistenza e l’empatia sono elementi che nascono dall'intelligenza umana, e sono quelli che probabilmente influenzano maggiormente la vita dell'uomo.  (voce D. Goleman di wikipedia)

[2] Per una sintesi del libro di Goleman leggere la recensione di Anna Lisa Pani  al sito: http://www.corem.unisi.it/bibliografia/recensioni/rec_goleman_lavorare%20con.pdf 
[3] Per lo spezzone del film accedere a questo link http://youtu.be/eAZ94A4CEWo

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