Scrive il Dottor Antonio Guaita (Direttore Fondazione Golgi
Cenci, Abbiategrasso, MI):
“La malattia di Alzheimer mette in crisi i tradizionali
approcci di cura. Di fronte alla complessità e alle difficoltà di questa
malattia, per non cadere nel nichilismo del «non c’è niente da fare», si rende necessario adottare un punto di
vista, una metodologia di approccio che aiuti a costruire il «che fare» per questi malati.”[1]
La demenza si manifesta infatti oggi come espressione
paradigmatica di cronicità[2], tale da
richiedere inevitabilmente diagnosi tempestiva, supporto ai caregiver,
formazione specifica, servizi diversificati che devono poter contare su una
rete sociosanitaria realmente integrata. Che fare dunque in concreto per
prendersi cura delle persone malate d’Alzheimer o con altre tipologie di
demenze? Quale deve essere l’obiettivo dell’attività di cura? Alle persone
affette da demenza sono stati applicati – e lo sono tuttora – vari modelli di cura, con obiettivi diversi.
Per esempio, il tradizionale approccio
medico-clinico, che ha come obiettivo la cura della malattia, viene spesso applicato nei servizi. Questo
implica il raggiungimento di una diagnosi e la prescrizione dei farmaci
sintomatici oggi disponibili; ma è importante sottolineare che per il malato e
per i familiari le difficoltà non finiscono con la diagnosi, anzi, piuttosto è
con questa che iniziano! Da quel momento comincia infatti per loro un percorso
in cui devono affrontare quotidianamente i problemi posti dalla malattia. Si
può dire dunque che, se la metodologia di questo approccio risulta utile in
fase diagnostica, si rivela però limitata in fase post-diagnostica, che è d’altro
canto la più lunga e delicata per il malato e per i suoi caregiver (considerando
che la durata media della malattia si aggira attorno agli 8/10 anni).
In questa sede vogliamo spendere due parole sul metodo
Gentlecare, che è stato ideato dalla terapista occupazionale canadese Moyra
Jones e che si basa invece su un approccio
protesico, avendo come obiettivo non la cura della malattia, ma la
realizzazione del benessere (Cfr.
Jones, 2005). Questo metodo si basa infatti sull’assunzione di due punti di
vista preliminari: 1) la perdita di funzione cerebrale della persona malata è
reale; 2) di conseguenza l’obiettivo non sarà il ripristino della funzione, ma
piuttosto l’assenza di stress e dolore
per il malato. Dal momento che allo stadio attuale la perdita neuronale
progressiva non sembra reversibile né farmacologicamente né biologicamente, si
pone la necessità di fornire “dall’esterno”
ciò che il malato non può più avere “dall’interno”. In altre parole: si deve
mettere in atto una protesi. In
particolare, tre sono gli interventi protesici che propone il Gentlecare, e
riguardano le persone, lo spazio fisico e le attività. Questa è la triade del metodo, dove ogni componente è
fondamentale e deve avere il giusto peso.
Lo spazio
fisico, per esempio, può fare la differenza per il benessere della persona.
È importante che l’ambiente sia – anche in
senso architettonico – tale da permettere a tutti (malati, operatori e caregiver)
di effettuare le adeguate attività per il benessere dei malati stessi. L’adattamento
dello spazio (di colori, luminosità, suoni ecc.) alle peculiarità delle persone
affette da demenza, è determinante per la loro riattivazione e per il loro
benessere.
Altrettanto importanti sono però anche le persone implicate a ogni livello nella
cura del malato: l’operatore (di ogni professionalità), l’assistente familiare
(badante), i volontari (senza chiaramente escludere i caregiver familiari). Per
tutti questi è pertanto necessaria una formazione adeguata, non solo per acquisire
le competenze specifiche, ma anche (e forse in misura maggiore!) per riuscire a
vivere una relazione positiva con i malati. È necessario imparare a comunicare con la persona affetta da
demenza e ciò vuol dire imparare a penetrarne il mondo interiore (a volte
oscuro), per riuscire a far luce sulle sue espressioni e sui suoi comportamenti.
Infine le attività.
Queste devono basarsi sulla biografia delle persone e adeguarsi alle loro
capacità conservate, ma anche – al contempo – riuscire a stimolare abilità
talora sottaciute e un’espressività affettiva spesso frenata. Oggi si sa che
attività come la terapia occupazionale, la musicoterapia, o l’arteterapia in
generale – un tempo considerate solo socializzanti – hanno efficacia reale per
il benessere della persona. La terapia occupazionale per esempio ha un peso
sulla gestualità, sulla motricità generale e sul linguaggio, mentre la
musicoterapia stimola la memoria autobiografica.
La serenità che la persona deve conquistare è quindi
lo scopo che anima il metodo Gentlecare ed è questa la sfida che viene
continuamente posta ai familiari, al personale di cura, ma anche più in
generale alle organizzazioni. Si rende infatti necessaria un’incessante
revisione di ciò che si fa, una continua manutenzione di tutti gli elementi di
cura, senza limitarsi semplicemente ai rapporti interpersonali né tantomeno ai
sintomi della malattia e cercando di provvedere
non solo al benessere del malato, ma anche a quello di chi cura, sia che si
tratti di un familiare, sia che si tratti di un operatore professionale.
Gentlecare vuole guardare al malato e al suo mondo
circostante per assumere la sua prospettiva, poiché riconosce che l’esperienza
che ogni malato fa del mondo ha una sua validità psicologica, anche quando tale
esperienza non sia immediatamente comprensibile agli altri. La persona con
demenza deve poter agire a partire dalla propria prospettiva e si deve tenere
presente che la capacità di entrare in empatia
con questa prospettiva possiede già di per sé un potenziale terapeutico. Ogni
vita umana è radicata in un tessuto di relazioni e dunque anche la persona con
demenza ha il diritto di continuare a mantenere tali relazioni significative
all’interno di un contesto di cura, che deve essere capace sia di compensare i
deficit cognitivi e funzionali, sia di offrire sostegno alle necessità di
autostima e autorealizzazione della persona, anche nelle fasi più avanzate
della malattia.
Affinché un cambiamento sia davvero possibile, non è
però sufficiente ricorrere a una formazione tradizionale volta ad accrescere le
conoscenze del singolo operatore e a sensibilizzare i responsabili delle
organizzazioni. Serve qualcosa di più, per mettere in atto veri e propri
processi di decostruzione/ricostruzione, ovvero per riuscire ad abbandonare un
vecchio paradigma e adottarne uno nuovo. Detto in altri termini, conoscere i
contenuti del metodo non è garanzia della comprensione del suo senso da parte
degli operatori: ogni piccolo passaggio di questa trasformazione va sostenuto,
condiviso e valorizzato; deve essere prefigurato nelle modalità attuative, ma
deve anche essere curato nell’effettiva attualizzazione attraverso spazi di
riflessione guidata che favoriscano l’allentarsi dei riferimenti tradizionali e
aprano alle nuove impostazioni culturali. Ogni organizzazione deve cioè essere
guidata a identificare i fattori che facilitano od ostacolano i cambiamenti
necessari coerenti al modello.
Si noti inoltre che, come si è detto, la persona starà
al centro di una rete di relazioni in cui la famiglia ha tendenzialmente un ruolo
privilegiato. Per garantire continuità esistenziale alla persona nella
transizione dalla casa alla residenza, familiari e altri caregiver informali
diventano parte integrante dell’intervento di cura. E anche in questo caso, l’organizzazione
non può non considerare che la qualità del servizio deriva da un’alleanza tra operatori, utenti e famiglie.
Anche le caratteristiche e la qualità di questa collaborazione dovranno quindi
dall’organizzazione essere prefigurate e poi verificate nell’operatività.
Per fare tutto questo è necessario allontanarsi dall’idea
che si possa fare cultura solo per i professionisti, che l’attività di cura
debba essere solo appannaggio dei “tecnici”. Tutti hanno diritto all’informazione,
a sapere come meglio agire per provvedere al benessere proprio e dei propri
cari. Tutti devono sapere che qualcuno si sta impegnando perché si realizzi una
vera e propria cornice culturale condivisa, che sia capace di andare oltre la
cultura assistenziale tradizionale e che si rivolga a tutti gli operatori –
quale che sia il loro ruolo o la loro sede di lavoro – a tutte le strutture, a
ogni caregiver in generale.
È necessario parlare di Gentlecare per far capire che
si può e si deve pensare in modo nuovo ai servizi per i nostri anziani. Con una
sempre maggior diffusione del metodo Gentlecare si potrà raggiungere il
cambiamento culturale e organizzativo auspicato.
Per tali ragioni, anche di questo metodo parleremo al Meeting delle Professioni di Cura, il 20 e il 21 Aprile 2016, presso il quartiere fieristico di Piacenza EXPO. Di seguito riportiamo il programma, i relatori e gli orari dei workshop dedicati all'argomento che saranno realizzati da Ottima Senior (rivolti a tutti gli operatori e ai caregiver familiari):
B-03 Gentlecare: cronache di assistenza (h. 15-18, 20 Aprile 2016):
- Laura Lionetti (Referente formazione Metodo Gentlecare - Ottima Senior): "Devo andare a casa a preparare da mangiare... Entrare nel mondo della persona affetta da demenza".
- Elena Bortolomiol (Referente italiana Metodo Gentlecare - Ottima Senior): "Cosa posso fare se... Indicazioni operative per la gestione della quotidianità".
- Paola Peruzzetto (Assistente Sociale - Residenza protetta Comune di Sacile, PN): "Che cosa vorrei raccontare, che cosa vorrei chiedere... Il colloquio di raccolta biografica con i familiari per costruire l'alleanza terapeutica".
C-01 Leghiamoli così non si fanno male (h. 9-13, 21 Aprile 2016):
- Laura Lionetti (Referente formazione Metodo Gentlecare - Ottima Senior): "Devo andare a casa... Entrare nel mondo della persona anziana".
- Elena Bortolomiol (Referente italiana Metodo Gentlecare - Ottima Senior): "Cosa posso fare se... Indicazioni operative per la gestione della quotidianità"
- Enzo Angiolini (architetto): "Autonomia in sicurezza. 10 soluzioni per 10 problemi: le vie di fuga, i dispositivi anti incendio, la personalizzazione degli spazi..."
- Paola Peruzzetto (Assistente sociale) racconterà "l'esperienza del Nucleo giallo della residenza per anziani di Sacile (PN)"
- L'architetto Angiolini risponderà infine a tutti i quesiti inviati dai partecipanti. Se avete domande che riguardano gli aspetti ambientali e architettonici, mettetele per iscritto e mandatele a info@editricedapero.it!
Per ulteriori informazioni e per iscriversi all'evento, consultate sempre il nostro sito: www.editricedapero.it, sezione "meeting".
[2]
Cfr. Rapporto OMS-ADI Demenza: una
priorità di Salute pubblica del 2012 e il Piano nazionale demenze – Strategie per la promozione e il
miglioramento della qualità e dell’appropriatezza degli interventi
assistenziali nel settore delle demenze del 2014.
[1]
Cfr. E. Bortolomio, L. Lionetti, E. Angiolini (a cura di), Gentlecare: cronache di assistenza. Soluzioni, modalità e idee di
applicazione del metodo, Erickson 2015, p. 15. Anche le riflessioni che
seguono sono tratte da questo testo.
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