Il caso FIAT. A noi del socio-sanitario, cosa insegna?
Ci son fatti di cronaca a cui non è improprio attribuire il significato e il valore di un vero e proprio spartiacque tra epoche. È questo il caso delle recenti decisioni del gruppo FIAT, sulle prime apparse come episodiche e circoscritte, poi, a poco a poco, sempre più avviate ad assumere un valore diverso, man mano che se ne intravedeva la portata. Le prime schermaglie tra Azienda, Governo e Sindacato hanno messo in evidenza che l’intento è di carattere generale nell’ambito dell’Azienda, ma non solo, al tempo stesso è fattore di novità in senso ancor più generale in quanto introduce il seme del cambiamento nel mondo della produzione metalmeccanica che per la sua tradizionale caratteristica di “apripista” nel mondo delle relazioni industriali fornirà base ed esempio a molti e, alla fine, a tutti i settori produttivi.
Due posizioni hanno colpito: da una parte quella di alcune parti sindacali che hanno gridato allo scandalo per un atteggiamento che potrebbe aprire una stagione di repressione di diritti dei lavoratori fin’ora garantiti dalla vigente Carta Costituzionale e dall’altra quella dell’Azienda che attribuisce ai lavoratori un atteggiamento ambivalente basato su una grande attenzione ai diritti non suffragata però da altrettanto rispetto per i corrispondenti doveri. La posizione mostrata dalla FIAT, almeno quella più evidente e dichiarata, è che bisogna arginare una tendenza antiproduttiva e inefficiente dei lavoratori, intesi in senso generale e ovviamente senza riferimenti specifici, che non capiscono, in sostanza, che la consistenza reale dei diritti poggia e trae fondamento proprio nella corrispondente assunzione di responsabilità riguardo ai doveri del lavoratore. Anche questo concetto è figlio della Costituzione repubblicana, altrimenti che significato potremmo attribuire al dettato dell’art. 1? Se l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro dobbiamo interrogarci su cosa intendiamo per lavoro; forse semplicemente “avere un posto” o sostenere le responsabilità connesse a quel posto!?
Senza fare un’analisi della storia recente e, come alcuni hanno fatto, sostenere un processo contro il sindacato che sarebbe reo di aver creato un clima di appiattimento e rivendicazione oltre ogni ragionevole oggettiva necessità, ci si può limitare alla considerazione che il sindacato è corresponsabile di un grande processo di demotivazione basato sulla contrapposizione con il datore di lavoro e su un dilatato egalitarismo spesso fuori equilibrio per aver posto l’accento sugli uguali diritti trascurando, per evitarne la conseguente impopolarità, gli uguali doveri ai fini dell’efficienza produttiva. La corresponsabilità del Sindacato presuppone la presenza di altri responsabili. Governo e Media, non c’è bisogno di cercare tanto! Non questo o quel governo (centrale o periferico) ma la gestione politico-amministrativa degli ultimi 50 anni che non ha saputo adottare strumenti appropriati per favorire la crescita di responsabilità né dei lavoratori né delle aziende. Sono stati chiesti investimenti in aree dove la produttività non sarebbe stata elevata per gestire il consenso offrendo “posti” (non lavoro responsabile) e ponendo così le basi per un’ulteriore diminuzione della produttività. Di conseguenza sono stati dati incentivi alle aziende che investivano riducendo il senso di responsabilità delle aziende stesse a cui non si sarebbe mai dovuta dare la sensazione di poter vivere al di sopra e al di fuori di ogni necessità competitiva essendo sufficiente un buon rapporto e una buona integrazione col potere politico. I media poi hanno fatto il resto: comunicazione narcotizzante e creazione di falsi miti di benessere, proposizione di obiettivi di vita riconducibili alla giovinezza, alla bellezza, ai consumi futili, alla crescita sociale legata alla visibilità televisiva.
Tutto questo, forse, ha preparato il terreno per un Governo che vuole la strada spianata per vivere, ma così può solo vivere alla giornata, non può fare programmazione e men che meno può svolgere alcuna funzione formativa verso i cittadini nè può cotituire elemento di indirizzo e garanzia per corpi civili e parti sociali.
Fin qui la critica al sistema, ma cosa c’entra tutto ciò con il nostro settore sociosanitario? Semplice: Governo, Sindacato e Grande Azienda, conducendo battaglie per integrare i distinti obiettivi, creano una visione della società che s’impone in termini generali influenzando in modo determinante la cultura del lavoro. Ora, da qualunque punto di vista si guardi il problema non si può che rilevare l’urgente bisogno di intervenire proprio su un punto relativo alla cultura del lavoro. Non c’è altro da fare che lavorare sulla formazione del personale, ma come già ho avuto occasione di dire, non tanto sulla cultura tecnica e quindi sugli aspetti pratici sul come intervenire materialmente sul “prodotto” (cioè la cura assistenziale), ma sull’approccio intellettuale stesso al lavoro in generale e al lavoro di cura in particolare.
Un aiuto a capire quale possa essere la nuova strada da seguire viene dall’intervento al meeting di Rimini dell’A.D. della FIAT Marchionne. Egli ha parlato con esempi tratti dalla sua esperienza e citazioni letterarie (Viaggiare è una brutalità. Obbliga ad aver fiducia negli stranieri, a perdere di vista il comfort familiare della casa e degli amici. Nulla è vostro tranne le cose essenziali: l’aria, il sonno, il sogno. -Cesare Pavese)
La conclusione di Marchionne è che abbiamo bisogno di cambiare ambiente e di conoscere altre culture. Certo il suo ragionamento parte dall’esperienza di direzione di una grande multinazionale dell’automobile e nel suo caso è evidente che le esperienze straordinarie di conoscenza di altre lingue, altri luoghi e altre culture è indispensabile per progettare un futuro ad ampiezza globale. Nel nostro caso sembra meno urgente ragionare così. In realtà anche per le aziende di sevizio è indispensabile capire la trasformazione del mondo e i fenomeni di integrazione culturale e sociale che si stanno sviluppando. È indispensabile capire cosa fa la politica per difendersi da un’inevitabile burn-out prodotto dalla discrasia tra ciò che viene chiesto agli operatori e ciò che viene assicurato in termini di risorse. È indispensabile, infine, per aprire la nostra mente e renderci meno vulnerabili. Il lavoratore dell’assistenza deve comprendere la sua posizione e deve condividere la missione della sua azienda di servizio. Pubblica o privata che sia l’azienda deve assicurare l’integrazione delle culture professionali e umane. La nuova formazione deve avere una base umanistica formidabile e deve aiutare il lavoratore a scavare nel suo profondo per ritrovare tutte le energie che servono per continuare in un’opera che sembra non solo mal retribuita ma anche socialmente squalificata.
Non si deve passare sotto silenzio quelle che sono le responsabilità della politica italiana di cui, sia pur in modo non frontale, anche Marchionne ne sottolinea la negatività. Dal suo discorso di Rimini: “Molto spesso le ragioni del declino sociale ed economico di un Paese hanno a che fare con ciò che non abbiamo saputo o voluto trasformare, con l’abitudine di mantenere sempre le cose come stanno”. La crisi, dice, ha reso più evidente e più drammatica la debolezza della struttura industriale italiana e dobbiamo osservare che la crisi mette in evidenza anche molte altre cose e forse si risolverà come un toccasana dei peggiori male del nostro tempo. La politica ignorante e corrotta è la nostra più grande debolezza. Ignorante perché vuole occuparsi di tutto e non ne ha le capacità (Invece del Governo del fare avremmo bisogno di un Governo del lasciar fare a chi è capace). Non passa la mano della gestione dei servizi alle imprese non per principi ideali di equità distributiva dei servizi stessi ma perché rappresentano un’area altamente produttiva di un settore che non conosce crisi che va sotto il nome di “poltronificio”. Quanto alla corruzione non è il caso di addentrarsi: troppi esempi a livello centrale hanno occupato le prime pagine e troppi esempi conosciamo direttamente nei singoli territori.
La corruzione purtroppo è una malattia contagiosa e a rapida diffusione. Se è corrotto chi occupa posizioni superiori alle nostre ci autorizza ad esserlo a nostra volta, se lo fanno molti, moltissimi, quasi tutti… fa sentire per lo meno “stupido” chi non lo fa, ma nessuno vuol giudicarsi stupido da solo! Ma il contagio non si ferma. È già grave che tutti gli apparati pubblici siano soggetti, almeno potenzialmente, a questo contagio, ma c’è di peggio. C’è un’ulteriore conseguenza: il male si estende a tutti in una forma diversa. È un po’ come un virus che si allarga a macchia d’olio ed è soggetto a mutazioni, provocando un male simile per natura ma diverso negli effetti. Come un virus è difficile da combattere e come un virus può provocare danni di proporzioni enormi. La corruzione genera tolleranza verso il male e questa tolleranza a sua volta genera varie forme di reazione tutte negative che vanno dall’indifferenza all’emulazione. Si può rifiutare il male con indifferenza – altro sarebbe combatterlo - ma ciò porta a rifiutare contemporaneamente il sistema, così si arriva a chiudersi in noi stessi e addio produzione! Si può assuefarsi al male e non ritenerlo più tale. Se tutti fan così, perché non accettarlo? Il corrotto e così pure il corruttore deve esser per forza tollerante e alla sua corte, di certo, non regnerà l’efficienza!
C’è una domanda impellente nei nostri servizi: come facciamo a ricuperare risorse?
Ebbene, tagliamo i costi della corruzione e anche nel socio-sanitario troveremo un buon contributo da spendere per la qualità della vita!
Per fare questo non bastano le leggi e neanche basta cambiare i governanti. Bisogna cambiare la cultura della gente, fare in modo che cessi questo clima di tolleranza e di apatia sostenuta e addirittura coltivata dai palinsesti televisivi che ogni giorno allagano le nostre case col germe del qualunquismo nel sonno dell'ignoranza ogni tanto ravvivato da una scossa di pruriginoso vouierismo.
Bisogna reagire, cambiare, muoversi, andare. Come diceva Cesare Pavese, dobbiamo imparare a poggiare solo su noi stessi e dobbiamo farlo in fretta. Come ha fatto intendere Marchionne a Rimini: non dobbiamo rimanere immobili in una struttura chiusa avendo i nostri risultati come riferimento, ma guardare avanti e confrontarci col resto del mondo.
Questo modo di ragionare potrebbe anche determinare la rivalutazione di concetti che riportano allo schema della civiltà corporativa.
Forse a qualcuno non piacerà il nome, forse a qualcun altro non piacerà il fatto in sé, ma il fatto è che una comunità di professionisti con un certo grado di serietà e una volontà precisa di affermare la propria identità culturale e professionale oggi sarebbe più forte dello politica, sarebbe politica sua volta e, non ho difficoltà a dirlo, sarebbe una politica migliore di quella a cui siamo assuefatti.
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