Lo stress lavoro-correlato non è normale e neppure inevitabile. Ci siamo detti questo il 20 Maggio scorso a Bologna a Exposanità, nel workshop intitolato “Quando il Burnout è dietro l'angolo. Uno studio e un film sullo stress lavoro-correlato”.
Assieme a voi, abbiamo voluto mettere lo stress al centro della discussione, per analizzarlo, capirlo e cercare di prevenirlo. Ci siamo fatti aiutare da studi e ricerche in campo psicologico, ma anche dalla letteratura, dai miti greci e dai film. Alla fine, abbiamo chiesto direttamente ai protagonisti dell’assistenza, attraverso il dibattito finale e una serie di video-interviste a una quindicina di operatori realizzate nelle settimane precedenti (e che si possono guardare cliccando qui).
Cosa ci dicono le leggi, in breve
Nel 2010 è entrato in vigore un decreto legislativo che ha allargato il concetto di tutela dei rischi sul lavoro a tutte le componenti della vita del lavoratore, compresa quella psicologica. Impone, quindi, al datore di lavoro di trattare lo stress lavoro-correlato alla stregua di tutti gli altri rischi. Secondo l’EUROSTAT, questo elemento è addirittura da collocare al secondo posto nella classifica dei problemi di salute dei lavoratori, subito dopo i disturbi muscolo-scheletrici.
Si calcola che siano circa quaranta milioni le persone che ne soffrono e che il 50% delle giornate di lavoro perse sia da ricondurre a questo fenomeno. Non possiamo quindi nasconderci che lo stress è un problema per tutti, anche per i datori di lavoro.
Dallo stress al burnout
Partiamo dal fatto che “stress” è un termine neutro e indica la risposta che una persona dà agli stimoli che riceve dalla realtà esterna. Quando si accetta la sfida che viene posta, lo stress diventa un fatto positivo e produce una crescita nell’individuo. Accade, però, che il significato assuma una connotazione negativa, se chi è chiamato a reagire avverte le proprie risorse come inadeguate, quando cioè il carico di lavoro appare eccessivo o insostenibile.
Inizia così un percorso in negativo, rappresentato dagli psicologi come scandito in quattro fasi, che termina nel burnout vero e proprio. Il film “Marilena è qui”, proiettato durante il workshop e di cui puoi vedere la prima puntata cliccando qui, ha esattamente l’intenzione di raccontare questo cammino di discesa, affidando il compito a quattro personaggi, che affrontano la morte di una collega e l’assistenza alla figlia rimasta orfana con atteggiamenti a prima vista molto diversi fra loro.
Delle fasi di cui si compone il fenomeno del burnout abbiamo già parlato in un articolo precedente (puoi leggerlo cliccando qui) e le ricordiamo anche in un altro intervento (che trovi cliccando qui).
In breve, quando i primi sintomi del disagio che proviamo iniziano a manifestarsi, solitamente con atteggiamenti di frustrazione e nervosismo e talvolta aggressivi, quello che va a crearsi è un circolo vizioso, dove il nostro comportamento genera malessere in chi abbiamo attorno, il quale a sua volta ci restituisce uno stress negativo. La sensazione di sovraccarico emotivo porta alla quarta fase di burnout, l’apatia: azzeriamo le emozioni e trasformiamo gli assistiti in numeri di letto e malattie, in modo che siano questi ultimi a morire e non le persone.
Cause individuali e cause ambientali
Il disagio del lavoratore nasce da fattori individuali, tanto quanto ambientali: Christina Maslach, psicologa statunitense che ha ideato la scala Likert per misurare il livello di burnout di un individuo, ricorda che il contesto in cui una persona si trova può influenzarla o addirittura cambiarla e va quindi tenuto sempre presente.
Il contesto sociale in cui viviamo, ad esempio, sembra non riconoscere appieno le competenze professionali degli operatori sociosanitari, concependoli spesso come un qualcosa di non ben determinato che lavora nelle strutture. Sono gli operatori stessi ad aver denunciato la mancanza di un’identità sociale definita in una ricerca condotta dall’Ente di Formazione Seneca, all’interno del progetto “Facce da OSS”, dove è emerso l’abbinamento fra i termini “operatore” e “camaleonte”.
“Facce da OSS” prende vita da un ente di formazione che ha sede a Bologna e mira a portare in primo piano quelle figure che vengono spesso considerate soltanto dei meri esecutori di decisioni prese da altri (es. medici o infermieri). L’idea che muove il progetto è di guardare all’operatore come a un ruolo in continua evoluzione e, forse per questo, difficile da collocare in modo preciso. Sul sito www.faccedaoss.it viene chiesto agli interessati di presentarsi raccontando la propria storia, per assumere così un’identità ben definita in un gruppo di collaboratori e smettere di essere “un paio di mani in una struttura”. Guardando al futuro, si pensa di fare del portale online un luogo d’incontro fra operatori e aziende, dove i primi potranno caricare i propri curriculum vitae in formato video. Potranno, insomma, “metterci la faccia”, come ha spiegato Renzo Colucci al nostro workshop.
Proseguendo negli interventi, abbiamo poi evidenziato un fattore individuale che ha molto potere nel favorisce lo stress: il desiderio di mantenere sotto il nostro controllo tutto ciò che ci circonda. Morte, malattia e sofferenza di chi stiamo assistendo ci destabilizzano proprio perché non possiamo sottometterle alla nostra volontà e fanno quindi venir meno il nostro ideale di guarigione. Molte delle persone intervistate hanno parlato di “chiudersi a riccio” e “indossare un’armatura” di fronte a un decesso. Il tentativo è quello di evitare il lutto, perché la scena che abbiamo di fronte ci ricorda la nostra condizione di fragilità e di esseri mortali. è per questa ragione che, come raccontava un’intervistata, con i parenti degli assistiti si cercano strategie di fuga, spostando il discorso dalla situazione attuale della persona alla sua vita precedente, da essere umano forte e in salute.
Un meccanismo di difesa simile è il lutto anticipato: con la mente siamo già proiettati a quando la persona terminale non ci sarà più, giustificandoci col pensiero di augurarle una fine al dolore che la malattia le impone. Contemporaneamente, però, sappiamo che anche le nostre sofferenze saranno messe a tacere, permettendoci di tornare a dimenticarci la nostra impotenza di fronte al corso della natura.
Compassione, comunicazione, comunità
Quando guardiamo alla morte siamo fragili e abbiamo paura, ma va bene così. Accettando la nostra debolezza, possiamo metterci al pari di chi stiamo assistendo e smettere di guardare a noi stessi come alla parte sana della relazione, accogliendo il consiglio che dava Carl Gustav Jung quando parlava del guaritore ferito. Va così a crearsi un vero ponte di comunicazione fra noi e la persona e ci è inoltre concesso di trovare un po’ di sollievo da un contesto culturale che loda chi è forte e supera gli ostacoli più difficili senza chiedere aiuto. La compassione, termine che deriva dal latino cum patior e significa “provare insieme”, è la chiave: come ci ricordava Robin Williams in “Patch Adams”, gioire e soffrire assieme a chi stiamo assistendo ci porta a mettere al centro la persona, non una malattia da sconfiggere.
Nel percorso inverso rispetto a quello che conduce al burnout, è fondamentale prendersi cura di se stessi e stare bene, per questo molti intervistati chiedevano di investire sull’operatore, assicurando fisioterapia per prevenire il malessere fisico e organizzando dei momenti di condivisione con i propri colleghi, affinché venga stimolata la comunicazione all’interno del team e l’unione fra chi deve formare ogni giorno una comunità attorno agli assistiti.
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